[Questa era la mia omelia per la messa conventuale nel Convento di San Domenico e San Sisto a Roma. È probabile che sia piena di errori grammaticali. Prego, carissimi lettori, la vostra indulgenza!]
1 Samuele 16:1b, 4, 6-7, 10-13 / Efesini 5:8-14 / Giovanni 9:1-41
Alla fine del ultimo capitolo dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, dopo tutte le sofferenze e tribolazioni che i protagonisti hanno sofferto, dopo la loro spearazione, i tradimenti, l'accusa falsa, la guerra, e la peste, ma anche dopo la testimonianza potente del cardinale, la conversione stupefacente del loro nemico innominato, e finalmente dopo il loro matrimonio e il regalo di molti figli, Renzo e Lucia hanno l'occasione di considerare ciò che devono imparare da tutto ciò che hanno patito. Per Renzo è semplice: Ho imparato, – diceva, — a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, qundo c'è lì d'intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d'aver pensato quel che possa nascere —. E cent'altre cose. In altre parole, Renza ha imparato come proteggersi dagli altri, come vivere e rimanere intoccato dalle sofferenze di vita, senza trasformazione dopo un'incontro con le altre persone.
La bella Lucia, conunque, non viene convinta dalle parole del suo sposo. E io, — disse un giorno al suo moralista, — cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, — aggiunse, soavamente sorridendo, — che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi. Insieme possono trovare la soluzione, ciò che Manzoni chiama il sugo di tutta la storia: ... conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolchisce, e li rende utili per una vita migliore. Senza aver negato la realtà delle sofferenze, chiedono di mettere la loro fiducia in Dio, nel loro amore l'uno per l'altro, e nelle persone che sono state diventate dopo le loro tribolazioni.
Nel Vangelo, vediamo questa stessa tensione fra il volere di rimanere intoccato e il desiderio di essere aperto all'incontro con gli altri e con le sofferenze. Per i discepoli di Cristo, per i vicini dell'uomo cieco dalla nascita, per i farisei, e per i capi della sinagoga, la cecità dell'uomo nato cieco e la sua guarigione miracolosa da Gesù Cristo rimangono semre un problema e un enigma di altri, cioè dell'uomo nato cieco a di Gesù. O incredulo ed ostile o aperto alla verità della storia relata dall;uomo cieco dalla nascita, nussumo crede se stesso di essere implicato nella cecità e nella guarigione. Pensano questo di essere la sua storia, non la loro. Loro invece vogliono rimanere intoccati, senza trasformazione.
Per l'uomo nato cieco, conumque, tutto il sugo della storia non è la sua cecità dalla nascita, non è l'incredulità dei suoi vicini, non è l'incapacità dei suoi genitori di difenderlo dinanzi ai capi della sinagoga, neanche la sua espulsione da lì. Diversamente agli altri, lui non è stato condotto alla domanda della ragione della sua cecità; il fatto della cecità e di più della sua guarigione miracolosa sono per lui dati – Ero cieco, disse, e ora ci vedo. Per quest'uomo, sia le sue sofferenze sia le sue grazie sono opportunità per dare la sua fiducia primo in se stesso (Sono io, diceva alla domanda della sua identità dopo la guarigione), e poi la fiducia in Gesù come sconosciuto (Non lo so, rispose alla domanda di dov'è Gesù), come profeta (come lui rispose ai farisei), come l'uno che onora Dio e fa la sua volontà (Non si è mai sentito dire, disse lui, che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla.), e finalmente in Gesù come Figlio dell'uomo (Ed egli disse: Credo, Signore! E si prostrò dinanzi a lui.). Per l'uomo cieco dalla nascita, quindi, è la sua trasformazione, la sua comprensione di se stesso, la sua fiducia nuova e durevole in Gesù come il suo Dio e Signore che gli importano, che rendono le sue sofferenze utili per una vita migliore.
Per noi, nella nostra vita comune e il nostro cammino verso Dio, che cosa rende le nostre tribolazioni utili per una vita migliore? Abbiamo imparato la lezione di Renzo alla fine dei Promessi sposi, a non metterci nei tumulti e nei conflitti nella comunità, a non far conosciuti ai fratelli i nostri sogni e le nostre speranze, a guardare con cautela e cinconspezione il fratello con cui parliamo, a non associarci alla vita degli fratelli che immaginiamo di avere una testa calda, ed a non rivelare i nostri andrivieni prima d'aver pensato quel che possa nascere?
O forse vorremmo imparate la lezione che Renzo e Luci hanno scoperto insieme, la lezione che ha scoperto l'uomo cieco dalla nascita? Oseremmo tentare di essere aperti alla trasformazione che ci viene se abbiamo il volere di essere toccati dalle nostre sofferenze e dall'incontro con gli altri, con i fratelli con cui viviamo? Nel mezzo dei guai che verranno nella nostra vita o per colpa o senza colpa, che verranno anche dalle mani dei nostri fratelli qui, avremo fiducia in Dio e nella nuova visione che abbiamo ricevuto da lui nel nostro battesimo, che per la nostra vita comune, il Signore può renderli utili per una vita migliore?
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